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      Quelle fila d'oro, che sono anche nobili; e non basta, sono anche cura d'illustre fabbro (un fabbro per le corde del chitarrino! ma le son d'oro!); e quelle altre che sono semplici; e non basta, sono anche care a la natura (dove si va a cacciar la natura!); quelle fila che il poeta scuote, non lo scossero lui? Egli raccattò la strofe; e i due versi Quelle abbia il vate esperto Nell'adulazïon con quel tronco nasale non gli calarono come un pugno negli orecchi a fargliela cascar di mano?
      Dopo la preghiera agli dèi, anzi ai cieli, acciò l'inimico destriero non calpesti i campi di Brianza, viene nelle due ricordate edizioni questa altra strofe che il Parini aveva rigettato:
     
      E, perché a i numi il fulmineDi man piú facil cada,
      Pingerò lor la miseraSassonica contrada,
      Che vide arse sue spicheIn un momento sol;
      E gir mille faticheCol tetro fumo a vol.
     
      Per due bei versi, gli ultimi (e ci sarebbe che dire su quel mille determinante di fatiche), dover sorbirsi il momento sol e portare in pace la scioperataggine di quel Pingerò! Vi pingete voi, o lettori, l'abate Parini là in Brianza che sonando la cetra, descrive, anzi dipinge, a Domeneddio il guasto menato da Federico II in Sassonia nell'estate del '58, e Domeneddio che sta a sentire, aspettando il momento del pathos per lasciarsi cadere il fulmine di mano? E dire che Giuseppe Puccianti, il quale ha pur tradotto Orazio, ammette nella sua Antologia fra gli esempi della poesia italiana moderna non pur quest'ode, ma con queste strofe! Ah caro amico, se cotesti sono fiori, che saranno le ortiche?


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Conversazioni critiche
di Giosuè Carducci
Sommaruga Roma
1884 pagine 237

   





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