Io dico che son brutti, brutti di core, brutti in modo da non si potere far peggio volendo, i seguenti:
Te suo nume onora e còleOggi il popolo diverso:
E fortuna a te devotaDiede a volger la sua ruota.
I suoi dritti il merto cedeA la tua divinitade,
E virtú la sua mercede.
Or, se tanta potestadeHai qua giú, col tuo favore
Che non fai pur me impostore?
E non mi scalmano da vero a dimostrare come e perché sono brutti; né saprei o vorrei sottilizzar troppo a ricercare come e perché il Parini, che pure di versi belli s'intendeva, e di che guisa!, s'abbandonasse poi a farne talvolta di cosí: era per amore d'una semplicità al rovescio e per riazione contro la vuotezza sonora? Ad altro c'è da pensare. Ecco: questa scuola lombarda, che fu giustamente definita la scuola del buon senso, del buon senso sollevato all'idealità e alla lirica, incomincia con l'inno all'Impostura, e finisce o tócca il piú alto punto con gl'Inni sacri. Tanta è la logica nelle parabole dello spirito umano.
Passiamo alla seconda parte: ipocrisie individuali.
Anche il Parini vorrebbe far l'impostore, ma non scioccamente da essere súbito scoperto e fischiato, come era pur allora avvenuto a qualcuno di sua conoscenza e di conoscenza, pare, di tutta Milano. Perocché, dopo i brutti versi piú sopra recati, nei manoscritti dell'ode seguitano tre strofe, rifiutate poi dal poeta, delle quali una è bella e curiosa:
Temerario menzogneroGià su l'Istro non vogl'io
Al geografo Buffiero
Tôrre un verso e farlo mio,
E buscar gemme e fischiate,
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