Sul manc'omero mi premi:
Tu una stilla ognor di piantoDa mie luci aride spremi:
E mi faccia casto ombrelloSopra il viso ampio cappello.
É il tipo figurato per l'eternitą dal Moličre, qui la prima volta ridotto alle brevi proporzioni della caricatura popolare.
Ma quest'altra strofe con quanta efficacia non rende il giólito degli sfoghi bestiali grugnante dallo stabbiolo della conscienza ipocrita! Quel fregamento di mani interiore, quella interrogazione e quella esclamazione che s'incalzano con uno sguardo di sotto in su, come č drammatico!
Qual fia allor sķ intatto giglioCh'io non macchi e ch'io non sfrondi,
Dalle forche e dall'esiglioSempre salvo? A me fecondi
Di quant'oro fien gli strilliDe' clienti e de' pupilli!
Le ultime due strofe sarebbe meglio non ci fossero. C'č l'amabil lume e il fervido pensiere, ci sono i rai della veritą e le zanne fiere del mostro orrendo dell'Impostura, c'č un E me nudo nuda accogli che fa ridere, facendo pensare alla bella figura che farebbero que' due nudi lķ, la Veritą e l'abate. Quei nostri vecchi, con tutte le lodi del buon tempo antico, doveano aver da vero di molto poca stima o dell'intelligenza o dell'onestą dei loro lettori uditori: attaccavano sempre la moralitą dove n'era meno il bisogno. Oggi affettiamo invece la immoralitą. Né l'uno né l'altro č arte.
V.
LE NOZZE.
Quest'ode fu scritta del 1777, nella prima quindicina di ottobre: l'abate Gian Carlo Passeroni la mandava con lettera del 15 a Verona al dottor Paolo Patuzzi, che era dietro a compilare una delle tante raccolte nuziali d'allora.
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