Sarebbe a quella sí a Tiberio cara,
Che cederian l'Esperidi alle pianteCh'avria il bel loco d'ogni sorte rara,
Che tante spezie d'animali quanteVi fien né in mandra Circe ebbe né in hara,
Che v'avria con le Grazie e con Cupido
Venere stanza e non piú in Cipro o in Gnido.(80)
Tramontati gli splendori estensi, uno storico ferrarese, nato a tempo da vedere gli ultimi bagliori di Belvedere, lo ricordava, con rammarico evidente, cosí:
Era questo luogo un'isola nel mezzo del Po, di forma triangolare, poco piú su della porta di Castel Tedaldo; cinta intorno di mura co' merli ben disposti e da dotta mano dipinti. Nel primo ingresso della quale si vedeva una gran prateria attorniata di piccioli bossi; nel cui mezzo sorgeva una fontana, che in molli spilli da un tronco di bronzo al naturale formato, cadendo l'acqua del Po in un gran vaso ritondo di finissimo marmo, facea di sé bellissima vista a' riguardanti. Oltre a questa prateria vedevasi di lontano il superbissimo palazzo con logge bellissime e scale, in cui l'ingegno de' primi architetti de' tempi del duca Alfonso primo affaticati s'erano. Quivi appresso era una chiesetta coperta di piombo, e dipinta dentro per mano delli Dossi, pittori famosi di quel secolo; e poco piú oltre, dall'altra parte, erano certe selve ombrose, tra le quali si vedevano alcuni bagni, che di grado in grado si scendeva a bagnarsi nell'acque del Po, che per certi canali di piombo sotterra vi si conducevano. Gli alberi fruttiferi erano molti e spessi; e piú a dentro di questo luogo si trovavano folti boschi, pieni d'ogni sorte d'animali domestici: su per le cime degli arbori, oltre i rosignuoli ed altri simili uccelli, si facevano gracchiando udire i pavoni d'India, che quivi domesticati non si partivano.
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