(90)
III
Quando il Tasso compose l'Aminta, egli con titolo di gentiluomo del duca di Ferrara aveva stanza in corte e la stessa mensa del principe oltre l'onorario d'un po' piú di 110 lire italiane al mese, e non obblighi altro che di far rime alle occasioni o quando gli piacesse; rime che Alfonso II, uomo di fino e signoril giudizio, udiva a leggere spesso e volentieri. Che se qui alcuno di que' poetuncoli e filosofuncoli che frustarono per sé tante paia di scarpe e a' capidivisione tante paia d'orecchi per diventar professori torcesse il grifo rugumando qualche frase di liberrima indignatio, ma che altro erano in sostanza a Weimar lo Schiller e il Goethe? Torquato si godeva quell'ozio letterario e quiete di studi con la conscienza perň d'un obbligo, scrivere poemi immortali. Ma dové anche qualche volta ricordare non senza cruccio taluno che forse cercň distoglierlo dall'accettare il partito del cardinal d'Este nel 1565 o lo avea piú di fresco nel 72 dissuaso dal rendersi al servizio d'Alfonso. Il fatto č che Aminta nella seconda scena, di tanto varia bellezza, dell'atto primo, esce un tratto a dire:
Giusta cagioneHo del mio disperar, ché il saggio Mopso
Mi predisse la mia cruda ventura;
Mopso, ch'intende il parlar de gli augelliE le virtú de l'erbe e de le fonti,
E si rammenta ciň ch'č giŕ, passato,
Ed osserva il presente, e del futuroSa dar vera e ineffabile sentenza;
e Tirsi, che č il Tasso, ripiglia:
Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso
C'ha ne la lingua melate paroleE ne le labbra un amichevol ghigno,
| |
Tasso Aminta Ferrara Alfonso II Weimar Schiller Goethe Este Alfonso Aminta Mopso Tasso Mopso Mopso Torquato
|