(93) Né basta. Quando nel 1576 Torquato mandava attorno il poema finito a questo e quel letterato per avvisi e correzioni, lo Speroni fu il piú triste e stravagante anzi tiranno che critico, anzi Zoilo che Aristarco: tanto che perduta alla fine pazienza il poeta ai 4 maggio scriveva ad un amico:
Se [lo Sperone] vuol udire i miei ultimi cinque canti, leggeteglieli; ma io avrei caro che non si curasse d'udirli. Dategli buone parole, dicendogli ch'io disegno di trascrivere tutto il libro di mia mano e mandarglielo: farò poi quello che mi tornerà commodo, e non mancheranno mai pretesti. A ogni modo, o tardi o per tempo, l'avemo a rompere; e la rottura sarà tanto maggiore quanto piú tarda. Io non vo' padrone se non colui che mi dà il pane, né maestro; e voglio esser libero non solo ne' giudicii, ma anco ne lo scrivere e ne l'operare. Quale sventura è la mia, che ciascuno mi voglia fare il tiranno addosso? Consiglieri non rifiuto, purché si contentino di stare dentro ai termini di consigliero.(94)
Né basta ancora. Nel 1581, quando il poeta era in prigione, quel cavalier cattedrante andava dicendo e scrivendo che, interrogato molte fiate dal Tasso intorno la poetica e rispondendo egli liberamente come soleva, esso Tasso «ne ha fatto un volume e mandato al signor Scipione Gonzaga per cosa sua e non mia; ma io ne chiarirò il mondo». Felice Paciotto, quegli a cui scriveva, proferendoglisi d'avere dal Gonzaga quel volume per chiarire il plagio, il vecchio impostore riparava all'ombra dell'avello.
| |
Torquato Speroni Zoilo Aristarco Sperone Tasso Tasso Scipione Gonzaga Paciotto Gonzaga
|