E allora il saggio Elpino dell'Aminta diventò l'Alete della Gerusalemme [II, 58],
Gran fabbro di calunnie adorne in modiNovi che sono accuse e paion lodi.
Ma torniamo a soggetto piú degno, Tirsi [a. II, sc. 2 ]:
O Dafne, a me quest'ozio ha fatto Dio:
Colui che Dio qui può stimarsi, a cuiSi pascon gli ampi armenti e l'ampie gregge
Da l'uno a l'altro mare, e per li lietiColti di fecondissime campagne,
E per gli alpestri dossi d'Appennino.
Egli mi disse, allor che suo mi fece:
Tirsi, altri cacci i lupi e i ladri e guardiI miei murati ovili; altri comparta
Le pene e i premi a' miei ministri, ed altriPasca e curi le greggi; altri conservi
Le lane e 'l latte, ed altri le dispensi:
Tu canta, or che se' in ozio. Ond'è ben giustoChe non gli scherzi di terreno amore,
Ma canti gli avi del mio vivo e veroNon so s'io lui mi chiami Apollo o Giove;
Ché ne l'opre e ne 'l volto ambi somiglia.
Qui è il Tasso, contento e felice, qual fu per poco a ventinove anni, tra gli splendori della corte, i favori delle belle, gli entusiasmi cavallereschi della nuova lealtà, la visione della prossima gloria. Che se in altro luogo [a. I, sc. 1] Tirsi è ricordato
allor ch'ardendoForsennato egli errò per le foreste,
Si che insieme movea pietate e risoNe le vezzose ninfe e ne' pastori,
Né già cose scrivea degne di risoSe ben cose facea degne di riso;
quello fu un delirio momentaneo per una passione che arse e passò. Ora egli è tranquillo, tranquillo, tranquillo, e delle donne e dell'amore pensa ciò che dice a Dafne nella elegantissima scena seconda del secondo atto:
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