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      Perciocché, convenendogli di accomodarsi interamente al costume ch'avea tolto ad imitare, non gli fu mestiero d'andar in traccia di parole frasi o giri che avessero del pellegrino o si scostassero punto dal comune linguaggio poetico, ma solo dovette scegliere nella nostra lingua le voci piú pure e piú leggiadre e le maniere di favellare piú gentili, e queste accozzare insieme in guisa che nel verso venissero a formare un suono tutto semplice nello stesso tempo e tutto grazioso. Piú d'ogni altra cosa però si vede ch'ei pose cura di andar imitando negli eccellenti greci, e massimamente in Anacreonte in Mosco e in Teocrito, certe figure, certi traslati, certe immaginette, certi vezzi in somma, che sembrano affatto naturali e pur sono artificiosissimi e sommamente delicati: nella quale imitazione il Tasso si contenne veramente da quel grand'uomo ch'egli era; perciocché non ricopiò già egli né troppo da vicino imitò, ma sul tronco delle greche bellezze innestò, per cosí dire, le sue proprie e quelle della sua lingua, di modo che ne venne a produrre un frutto nostrale assai piacevole e per avventura anche piú saporoso del primo ed originario.
     
      Tanto parve, ed è, detto bene, che un sovran maestro del verso italiano, il Parini, fece suo intero e nelle stesse formali parole il giudizio senza né anche citare il giudicante.(116) Ma nei tempi di produzione e coltura veramente letteraria non si bada pe 'l sottile a ciò che può essere proprietà comune, il ben sentire intorno un'opera d'arte.


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Su l'Aminta di Torquato Tasso
Saggi tre
di Giosuè Carducci
Sansoni Firenze
1896 pagine 129

   





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