Gli venne poi in pensiero che ebbe forse la disgrazia d'insultare un uomo intrepido, e quindi riconobbe per suo religioso dovere quello di risarcirlo, anche uccidendolo se abbisognasse, ma onorandolo nel medesimo tempo e compiangendolo poi che abbia voluto farsi uccidere per non saper soffrire da lui una picciola ingiuria; non indifferente in questa riflessione al piacere di un nuovo trionfo. Quindi si affrettò ad accettar la sfida, acciò l'altro, supponendolo timoroso, non avesse tempo di accrescersi il coraggio. Gli venne anche un altro pensier maligno. S'imaginò che lo sfidatore, sfidandolo, abbia sperato ch'egli non accetti la sfida. Accettò dunque, e si lusingò ch'ei fosse per inciampare in qualche poltroneria, la quale poi potesse giustificar lui, dimostrando al mondo che alfine non avea insultato che un vile. Desiderò però nel fondo del suo core che lo sfidatore fosse uomo valoroso, poiché non avviene mai che un bravo stimi un altro più bravo di lui, onde prevede la sua vittoria sempre più gloriosa, e della vittoria nel suo core è sicuro. Questi sono i pensieri che in simili occasioni albergano nell'animo dell'uomo veramente nobile. L'uomo nobile, che ha offeso, non va in traccia di sotterfugi per esimersi dal dare all'oltraggiato tutte le soddisfazioni. Quelli che non sono pronti a darle sono infingardi, se pure non dimostrino che le persone che offesero meritavano d'esserlo, o erano in debito d'essere anime vili insensibili ad ogni affronto; ovvero tenuti dall'umiltà della loro condizione o dalla doverosa subordinazione a dissimularlo.
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