La morte è la parte meno disumana delle tragedie di Genova, di Alessandria, di Chambéry. Francesco Miglio, che col sangue delle sue vene scrive alla sua famiglia, sotto il dettato d'un traditore, una lettera che sarà la sua sentenza di morte: Andrea Vochieri, già in atto di morire, nè omai più cosa di questa terra, profanato da un calcio di Galateri: Jacopo Ruffini, che si trae di mano ai tentatori, scannandosi colle ferree lamine del suo carcere: le tenebre spaventose: i sonni rotti dagli inquisitori: le torture della fame: le firme falsate: abusate perfino le lacrime delle madri: e tutte queste abominazioni avvolte di formule nefandamente religiose: ci fanno quasi sognare d'assistere tra le selve dei Druidi ai sacrifici umani. I sepolcri dei vivi sullo Spielberg riescono quasi un asilo, un refrigerio alla mente inorridita. Molti furono detti tiranni per aver messo a morte chi sospettavano deliberato a rapir loro la corona. Carlo Alberto uccise quei generosi giovani che avevano vaneggiato, non di torgli, ma di dargli la corona: la corona di tutta Italia: "Fatela tutta vostra e felice!".
Da quel giorno
, dice l'intrepido scrittore, dal quale attingiamo quei fatti, "Carlo Alberto, in continuo sospetto di congiure e di rivolte, collocò la sua maggior fiducia nella polizia. Volle denuncie e denunciatori nel municipio, nella magistratura, nella milizia, nell'episcopato, nell'aristocrazia; fido sostenitore del potere della polizia, era il potere del gesuitismo, entrambi tenebrosi, terribili entrambi, operanti di qui coi frati, di là coi gendarmi, dappertutto coll'oro, col ferro, colle spie".
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