Ma codesti nuovi republicani, pur troppo erano propensi sempre a sperare più nell'esercito regio che nella guerra di popolo, perchè la scola loro era scaturita primamente dall'idea napoleonica. Ora un Napoleone non poteva surgere che di republica. Una monarchia che dovesse trascinar seco al campo il guardinfante dell'etichetta, del gesuitismo, della polizia, della diplomazia, non poteva trar di sotto a quegli ingombri un Napoleone. E anch'egli, il primo console, quando si ebbe messo intorno tutto l'imperiale viluppo, non operò più le giovanili sue meraviglie. Pure, anche in quella gabbia egli era rimasto sempre il leone, l'uomo della indomita volontà: mentre Carlo Alberto, ora vacillando a destra ora a sinistra, doveva appuntellare sempre il mutabile suo volere al consiglio altrui; nè sapeva far passo inanzi se non si udiva alle spalle il mormorìo delle genti o la lode. L'Italia non ebbe il console; nè l'uomo.
Sciolti da ogni rito, i giovani e liberi propagatori si erano, per così dire, approfondati nell'onda popolare. D'ogni cosa essi fecero arme morale a confortare la moltitudine, conscia degli affetti suoi, ma inconscia della sua forza. Essi tradussero in vulgare alle smembrate provincie l'arcano dell'unità. Adoperarono i fogli clandestini e i publici, i canti, gli evviva a Pio IX, il sasso di Balilla, le catene di Pisa. Adoperarono i panni funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive; assortirono in tricolore le rose e le camellie, gli ombrelli e le lanterne; trassero fuori il cappello calabrese e il giustacuore di velluto: il vessillo della nazione e quello delle cento sue città. Era quella una lingua nuova che parlava a tutte le genti d'Italia più alto e chiaro che l'altra lingua in cinque secoli non avesse parlato.
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