Potevano ben vedere come il regno di Napoli fosse il doppio quasi del Piemonte, e non fosse più forte. E il Piemonte doppio della Svizzera, e non diviso, ma saldamente stretto in una sola mano, e non però a lunga pezza sì forte. E dopo la cabala che si compiè colla farsa dell'Urbino il 29 maggio, il Piemonte che dettava la fusione col pretesto d'esser più valido a spacciar la guerra, si trovò da quel momento più debole, per timore ch'ebbe Torino di perdere i vantaggi di regia sede e le briciole della regia mensa, e per timore ch'ebbe la corte di non aver braccio a infrenare la improvisa folla dei nuovi sudditi, non ancora ben maceri e fracidi nel gesuitico lezzo. E quindi si lasciarono ir perdute, in giugno, le quattro provincie venete prima d'averle acquistate; e in luglio, al primo infortunio, si lasciarono andar perdute l'altre provincie e i ducati. E il 5 agosto ai generali di corte parve mala grazia nei milanesi che non si sottomettessero subito e di buona voglia ai barbari, quando così pareva e piaceva a Sua Maestà. Sembrava quasi che l'abbandonare vilmente la guerra poco importasse. Chi doveva volere, non voleva. Ora, il primo principio di forza nelle cose umane è la volontà, e non il numero degli uomini che da quella volontà dipende. E non fu il numero dei battaglioni, che poi condusse, senza contrasto, gli austriaci in Mortara, intercidendo l'esercito piemontese dal regno; e che poi gli condusse con minor contrasto ancora in Alessandria, quando pareva bello agli eroi di corte andar piuttosto a malmenar Genova, perchè voleva continuata virilmente la guerra.
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