E il re, anzichè attendere a ristorare in tempo la guerra all'austriaco già vinto in Ungaria, anzichè inviar pane a Venezia, sognava l'imperio di Roma. E gli incauti suoi partitanti insidiavano la Toscana; invadevano sul cadavere di Rossi il ministerio romano; e quasi importasse sopra ogni cosa far vacante il trono dei Cesari, favorivano la fuga del pontefice.
Allora Mazzini, omai fastidito, dettava dal suo ritiro di Lugano nei Ricordi ai giovani l'ultimo disinganno della guerra regia. E una mano amica gli scriveva d'uscire dalla latebra del prescritto e avviarsi a Roma, ove doveva svolgersi ben altramente il nodo dell'italica unità. E infatti negli ultimi di dicembre, egli rivarcava le Alpi con ben altro animo che non ne fosse calato; e per la Elvezia e la Francia, con lenti e insidiati passi, giungeva al Mediterraneo.
Intanto la necessità ineluttabile delle cose, la natura romana e i consigli dei repubblicani nati, avevano fatto erumpere improvisa la romana republica. Fu l'8 di febraio. E già, il 12, Roma porgeva una mano materna a Mazzini; lo chiamava suo cittadino; il 25, lo deputava all'assemblea; e il 5 marzo accoglieva ospitalmente la sua venuta. In quel giorno si compieva appunto l'anno, dacchè, l'esule aveva stretto in Parigi cogli scaltri e malaccorti facendieri del re il patto dell'Associazione italiana. Qual mutamento di cose e d'uomini! Quanto veloce è il passo del secolo, che arreca nuovi pensieri e nuove sorti al genere umano!
Intanto che il popolo di Vienna sanguinava per la libertà, i cortigiani avevano continuato fra noi il grido: fuori i barbari: l'Italia fa da sè. Ma i fatti di Messina, di Genova, di Roma, mostravano che barbaro può suonare tanto tedesco, quanto francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi.
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