I manuali che a migliaia lavoravano sulla via ferrata di Vicenza, erano accorsi a Verona, pensando vi fosse da combattere. Ma le guardie privilegiate chiusero loro sul viso la porta; e perchè quei gagliardi si accingevano a sforzarla, vi fu chi li acquietò, narrando come il vicerè avesse concesso le armi alla cittadinanza, e promettendo che se bisogno vi fosse si spedirebbe a chiamarli. Aveva ben ragione il giovine arciduca di beffarsi di quella civica e "delli schizzetti rugginosi coi quali andava pattugliando", senza avvedersi che servivano di zimbello al nemico, e che ben tosto glieli avrebbe ritolti. Il comandante Gerhardi temeva veramente "ad ogni minuto lo scoppio della ribellione", e negava a Radetzky il rinforzo del reggimento Ernesto, essendochè Zichy alla sua volta gli negava da Venezia il reggimento Fürstenwerther. Bastava la sorda paura del popolo a scemar le forze al nemico. A crescer pericolo, giungeva allora da Milano quel battaglione Danthon di granatieri comaschi, bresciani e veronesi, che il sospettoso Radetzky aveva allontanato da Milano; e lo si faceva accampare, come appestato, al di là dell'Adige, in Campagnola, fuor delle mura.
Anche Trento, l'antica republica episcopale, aggiogata contro animo all'Austria, sentiva il nuovo alito della nazionalità; i suoi municipali scrissero, il 20, a Mantova, offrendo fratellanza; ma la fratellanza di quei gloriosi giorni volevasi stringere d'altro modo. I trentini avevano presidio di poche centinaia d'uomini: potevano disarmarlo; scendere a sopracapo di Verona; dare a quei cittadini e granatieri l'elettrica scossa che travolge gli oscillanti.
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