Chi mira quei folti battaglioni di forte gioventù, splendidamente armati colle spoglie delle loro nazioni, sulla fronte ai quali traluce un raggio di mal repressa intelligenza, non si lasci abbagliare. No, il color d'una bandiera, una novella improvisa, una parola, la sola intonazione d'un cantico, basta a squassare tutta quella scenica ordinanza, e trasmutarla in una mischia sanguinosa, ove all'unica voce dell'odioso comando risponda in dieci lingue il grido della nazionale vendetta. Non è nemmen necessario l'urto di un altro esercito; questo ha in sè tutti gli elementi della sua distruzione.
E perciò è vano l'argomentare se in altra congiuntura potrebbe rinovarsi il prodigio dei cinque giorni, se i cento battaglioni che ora ha l'Austria in Italia, farebbero miglior prova che non fecero i settanta battaglioni che aveva allora. Intorno a ciò diremo anzi tutto che, se crebbe il numero delle truppe, crebbe in ragione maggiore lo spazio sul quale sono disseminate; allora non si stendevano oltre Parma e Modena; ora fino nelle Maremme, nell'Umbria e nelle Marche, ch'è due o trecento miglia più lontano. Perlochè non potrebbero avere tra il Ticino e il Serio più delle sette brigate che ebbero allora, nè più di due brigate fra il Serio e l'Adige. Allora erano in maggior proporzione i soldati italiani; ma questo è ben certo che i soldati d'altre nazioni, che allora miravano con animo ostile l'Italia, ora sono ridutti a sperare nella sua vittoria e nella sua libertà. Certamente, il popolo non sarebbe costretto a mendicar, da un re, capitani senza sapere e senza volontà, quando venissero a consigliarlo e precorrerlo sul campo i superstiti difensori della libertà ungarese, i cui nomi l'esercito austriaco ha imparato a conoscere e paventare.
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