Non si mosse dunque il re, se non quando ebbe a temere che nella libera Milano si gridasse altro principe o altra forma di Stato. Non potè dunque giungere coll'esercito al ponte di Pavia se non sette giorni dopochè lo avevano varcato i suoi poveri volontari genovesi e lomellini. Ma giunto al confine, poteva almeno correre la via più breve, sia lungo la sinistra del Po, sia lungo la destra, avendo aperti i ponti di Pavia, di Piacenza, di Pizzighettone; e potendo farsi in Cremona una testa di ponte già bastionata e anche già notabilmente munita. Così se non poteva più precludere al nemico il riacquisto delle fortezze, poteva stringerlo subito e sottrargli le vittovaglie. I suoi lodatori scrissero che la sua "linea d'operazioni procedeva da Piacenza a Cremona". È falso; al contrario egli seguì una linea serpeggiante, che raddoppiava le distanze, con inutile stanchezza dei soldati, anzi accresceva ad ogni marcia quell'intervallo di sole dieci miglia, che la notte del 23 divideva dal ponte di Pavia l'ala destra del nemico in Landriano. I generali, o che dettassero quella politica e quella strategia, o che la subissero, affettavano di temere non sappiamo qual ritorno offensivo del nemico, il quale aveva altro a fare. Pareva che col far pompa di timori e lentezze volessero dire ai popoli: Voi v'imaginate d'aver vinto, solo perchè non sapete nulla di guerra. Cominciarono a darsi un assurdo allarme il giorno 23, quand'erano ancora nei quartieri loro in Novara e Mortara. Ebbero per molti giorni l'ordine "di non comprometter l'esercito nemmeno con una fucilata". Non appena giunti in Brescia, e avuto nuovo allarme, ritornavano in città senza assalire il nemico; lasciavano manomettere gli insurti di Monte Chiaro; e a chi ne richiedeva il perchè, rispondeva il general Bes: "Io non ho ordine d'attaccare".
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