Il ricapito principale dei propagatori di discordie fu in breve Milano. "Là, la santa causa, scriveva Salvagnoli, chiama tutti a combattere con tutte le armi in tutte le guerre tutti i nemici; là, corre il gran lombardo Berchet; là, noi lo seguiamo; or non v'è che una Italia". E pigliando congedo dai lettori della Patria, aggiungeva: "La Patria non muore, ma si raddoppia; noi andiamo a portare la sua bandiera anco in Lombardia; là continueremo la nostra battaglia a tutta oltranza". Minacciando battaglia a tutti i nemici, il Salvagnoli la minacciava anche ai cittadini d'altro parere; e promettendo valersi d'ogni arme, comprendeva anche quelle che non erano oneste. E già ne aveva fatto largo uso, quando rubava a Milano anche quella ben pagata gloria dei giorni di marzo: "Giunge una staffetta da Milano e porta che la colonna delle truppe e dei volontari di Novara penetrò in Milano il giorno 20; i primi a scalare le mura furono i bravi bersaglieri piemontesi. Sì, sì la grande spada d'Italia è snudata: gli Italiani di Piemonte hanno liberato gli Italiani di Lombardia". In queste basse arti aveva compagno il governo provisorio; il quale, la matina del 24, prima ancora d'aver notizia che il re si fosse deliberato alla guerra, affiggeva agli angoli: "Cittadini, buone notizie! l'armata piemontese ha passato il Ticino; questa brava armata ch'è venuta puramente in nostro soccorso". E noi dovremmo arrossirne per la nostra nazione, se per ventura le menzogne più sfacciate non fossero ancor quelle che mandava intorno l'Allgemeine Zeitung, la vessillifera dell'onore teutonico: "Milano tornò all'obedienza.
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