Era quello un politico panteismo, nel quale, per virtł metafisica dell'unitą, persone e cose venivano in un sol vortice tramestate e assorte.
Ogni sforzo di metafisica era vano. I provisorii, non pensando in verun modo alla guerra, ma solo alla loro politica, protestavano sempre di serbare ogni controversia politica al termine della guerra. Spacciavano tali ciance perfino al papa, che pure doveva per tante strade sapere i secreti pensieri di loro e del re. Scrivevano: "Alla Santitą di Pio IX: Finchč ferve la guerra, noi provederemo che dissidii non surgano sulle forme politiche a cui debba comporsi questa nobil parte della gran patria italiana; a causa vinta la nazione deciderą". Lo ripetevano ogni istante al popolo: "A causa vinta, i nostri destini saranno discussi e fissati dalla nazione". "Attendete che ogni terra italiana sia libera; liberi tutti, parleranno tutti". "Non si discute intanto che si combatte". E il re medesimo aggiungeva in suo proclama ai popoli, dato in Lodi il 31 marzo: "Le mie armi, abbreviando la lotta, ricondurranno fra voi quella sicurezza che vi permetterą d'attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il voto della nazione potrą esprimersi veramente e liberamente; in quest'ora solenne vi movano sopratutto la caritą della patria, l'aborrimento delle antiche divisioni, delle antiche discordie, le quali apersero la porta d'Italia allo straniero". E come se parola di re fosse poco, usciva a farne fede anche il dottor Angelo Fava, promettendo enfaticamente che la nazione deciderebbe "a guerra finita, quando l'idra austriaca sarą abbattuta dalla clava italiana.
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