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      Eppure tanto lusinghiera è per li uomini questa illusione della possidenza, che ancora oggidì il contadino indiano dice con orgoglio: "La rendita è del re, ma la terra è mia".
      Tolto così il godimento dei frutti e la libera disposizione della sustanza, i conquistatori vincolarono anche il modo di coltivarla. Suddivisero la terra e il popolo in tanti communi non minori di cento anime né maggiori di duemila. Vollero che il commune rispondesse solidariamente dell'imposta prediale, ossia del reddito nitido; e che i magistrati communali suddividessero di volta in volta il carico fra li agricultori. E perciò diedero facoltà al magistrato di costringere i possessori a coltivare, e anche determinarne il modo e il tempo, affinché per inerzia d'un privato non ricadesse su li altri più gravoso il carico. Si ebbe così una proprietà vincolata al commune, e una coltivazione per conto comunale ("bagwar"); il frutto della quale, prelevato prima il reddito fisso del re, poi li stipendii dei magistrati e inservienti communali, poi le spese e scorte per l'anno seguente, viene ripartito fra i possessori delle tenute ("bag"), in proporzione dei numeri di mappa, o particelle ("ana"), che ciascuno possiede. È questo un modo affatto singolare d'amministrazione agraria; e forse non v'è istituzione nostra che gli simigli, se non forse la proprietà delle miniere di ferro nei nostri monti. Il numero delle funzioni communali è assai grande; oltre al capo-villa ("gram-adikar", "potail"), vi è un esattore, un custode dei confini, delle vie e dei viandanti, e varii ministri del culto, come il sacrificatore, il canzoniere, il tamburino, il flautista, la baiadera, e finalmente l'astrologo, che coordina alle stagioni e ai riti l'ordine delle operazioni rurali.


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Dell'India antica e moderna
di Carlo Cattaneo
pagine 63