Nell'estremità della penisola e nelle regioni montuose e armigere, li stessi regoli indiani si patteggiarono zemindari dello straniero, e così conservarono le reliquie dell'antica potenza; ma la maggior parte delle due caste dominatrici cadde in improvisa povertà. I tributi che facevano gioconda la vita dei militi e dei loro poeti, e avevano nella quiete dei collegi nutrite le meditazioni metafisiche dei bramini, e stipendiato li artefici che scolpivano nel basalto i santuarii, trapassarono ai nuovi dominatori. Dall'estremità del mondo maomettano vennero orde di venturieri turchi, afgani, persiani, circassi, curdi, arabi, cabaili, malesi, a dividere i preziosi scialli di Casmira, i veli di Dacca, i profumi del Malabar; trassero [804] seco turbe di schiavi bianchi e neri. La nuova gente contò ben sedici milioni d'anime addensati per la maggior parte nelle città; la sua ricchezza rappresentò tutto ciò che le alte caste indigene avevano perduto. Eccelsi minareti e tumide cupole segnarono da lungi i nuovi santuarii del culto maomettano e i sepolcri dei nuovi regnatori. I magistrati, le milizie, il commercio assunsero nomi arabi; e il persiano, ch'era però già affine al sanscrito, divenne il linguaggio consueto delle corti e dei viandanti. Alla corte del conquistatore di Ghazna fioriva il poeta Firduzi, l'autore del Shah Nameh; e molti dei principi musulmani e dei loro ministri furono scrittori illustri nelle loro lingue, portarono nelle Indie l'ignota scienza della geografia, l'ignota scienza dell'istoria.
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