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      Il legislatore vi è sempre chiamato a parlare come uomo di parte; il possidente propone la legge del pane caro, e il manifattore propone quella del buon mercato; se quegli non si crede in debito di provedere allo sconcerto delle manifatture, questi non ha incarico di riparare alla ruina delli agricultori. I deliberanti non accondiscendono alla ragione, ma cedono alla necessità, quando l'avversa potenza si è fatta imperiosa e irresistibile. Il punto di transazione si determina a forza di voti; tutti li interessi che non hanno voto, che non hanno rappresentante, rimangono fuori della legge. Quindi un'estrema ineguaglianza di sorti, poiché non v'è mano conciliatrice e paterna chiamata a contemperarle.
      L'agricultura indiana non ha capitali; tutte le sue scorte consistono - nelle sementi, - in pochi buoi destinati all'aratro e ai trasporti, ed esclusi dal popolare alimento, - e in alcuni canali d'irrigazione e stagni artificiali, costruiti questi in gran parte sotto il dominio musulmano, e ora negletti e ruinosi. Il contadino non può avvicendare le coltivazioni; e un'agricultura che potrebbe abbracciare centinaia di preziose produzioni, e barattarle colle grosse derrate delli altri climi, è costretta a sopperire alla diretta sussistenza del contadino, e perciò a sfruttare il suolo colla perpetua risaia. La coltivazione delli aromi, delle tinture, dei coloniali, è ristretta a scarsa misura; quella dell'indigo è sostenuta da capitali stranieri, che ne hanno tutto il rischio e il vantaggio; quelle dell'opio e del tabacco sono privative della Compagnia.


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Dell'India antica e moderna
di Carlo Cattaneo
pagine 63

   





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