Frattanto la stampa aveva avuto tempo di metter radice; la guardia nazionale l'aveva fatta rispettare dai cagnotti del governo e del circolo costituzionale. I servili vedevano dileguarsi d'ora in ora la frodata popolarità; e molti dicevano loro sul viso che conveniva lasciarli fare, affinchè disingannassero essi il popolo così come l'avevano ingannato. E al pari delli altri prepotenti che cadono, erano già costretti d'appellarsi alle vecchie infamie di polizia; delle quali sarebbe troppo nausea istoriare i particolari. Essendone io, ad onta dell'assoluta mia immobilità, l'assiduo bersaglio, mi ridussi a chiudere a tutti la mia casa, ch'era sempre stata, anche sotto il governo austriaco, l'amichevole convegno d'uomini studiosi d'ogni opinione. E infine, per lo stomaco che mi faceva quell'influenza cadaverica di corte e di gesuitismo mi prese una smania di lasciare la patria, ch'io non aveva mai provato. Cercai con male parole al Fava un passaporto, che mi fu mandato l'8 giugno. Sì presso ancora ai cinque giorni! E poi non sapeva risolvermi; e di giorno in giorno prolungava miseramente quella vita da prigioniero.
Dirò che i liberali ebbero più longanimità o dignità che forza e coscienza. L'unica eccezione fu quella dell'Urbino, che al 29 di maggio il giorno in cui si chiudevano i registri della fusione, volle approfittare del fremito ch'era in molti buoni cittadini, e tentò costringere i membri del governo a dimettersi. Ma quelli ch'ei volle sostituire, non lo conoscevano, essendo egli tornato di Parigi da poco tempo; e perciò rimase naturalmente derelitto.
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Fava Urbino Parigi
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