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      Così rafforzato, il nemico tentava una sortita; ma dovette ritirarsi nuovamente in castello. Poco dopo tentava una nuova sortita, che veniva dai nostri, con egual valore della prima, respinta. Disperando allora di poter ricacciare i nostri al di qua delle Sarche, e vedendo di non poter più oltre sostenersi in castello, risolvevasi ad abbandonarlo, e piegavasi in ritirata verso Trento. I nostri inseguivano il nemico; gli toglievano due carri; ferivano parecchi dei fugitivi; indi una quarantina d'uomini si spingevano sin oltre Vezzano; e quivi piantava l'arbore della libertà, fra li applausi del popolo, e le benedizioni del curato in pompa sacerdotale. Giuntovi il resto del battaglione, si disponeva a quivi pernottare, avendo già collocati li avamposti di fronte al nemico; ma ricevuto l'ordine di ritirarsi, ripartiva verso mezzanotte, verso Toblino.
      Il giorno 16, giungeva l'ordine di ritirarsi a Stènico. Trovava i soldati stanchi dalle fatiche campali di due giorni e due notti, malcontenti per la deficienza d'ogni materiale da guerra, circondati dal nemico, indeboliti dalla fame, dalle fatiche. Eppure questi soldati non volevano abbandonare il posto. Li officiali radunatisi fecero un indirizzo al comandante, pregandolo a non voler lasciare una posizione conquistata con tanti stenti e col sangue dei loro generosi soldati. Promettevano di difendere fino all'ultimo respiro la conquistata posizione tutto quel giorno e la notte successiva, sperando che in questo tempo arriverebbero le munizioni.


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Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra
di Carlo Cattaneo
1849 pagine 315

   





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