La marcia degli ultimi giorni erasi eseguita sotto una dirotta pioggia; facevano pietà li stenti e le fatiche che dovevano sopportare i nostri soldati; moveva sdegno il pensare, in quale stato d'abbandono ci avevano lasciati coloro che pretendono dirigere la rivoluzione; irritava il vedere come coloro che si mettono alla testa della novella Italia, trattavano quei generosi che per redimerla sacrificavano i loro interessi, li agi della vita, la vita stessa. Pochi erano muniti di cappotto o di mantello. Quasi tutti avevano le scarpe sdruscite, e pressochè inservibili; più di centocinquanta, non è esagerazione, più di centocinquanta viaggiavano a piedi nudi.
In Brescia dimandammo come si potesse entrare in un'armata regolare. La sera del 25 aprile, si spediva per organizzarci il colonnello Cresia coll'uniforme delle truppe di sua Maestà Sarda; con officiali tutti com'egli, in abito e soldo di Carlo Alberto; e ci proponeva paga di Carlo Alberto, disciplina di Carlo Alberto. Questo fatto tolse il velo dalli occhi nostri; forse sciogliemmo allora l'enigma, del perchè eravamo così malmenati. All'ordine del giorno del colonnello Cresia, i nostri soldati rispondevano: voler essi bensì entrare in qualunque armata che italiana fosse; non volersi mai porre sotto li ordini di un re, nè di una frazione qualunque d'Italia; esser dessi colli Italiani, Italiani: in faccia ai Toscani, ai Piemontesi o a tutt'altra frazione d'Italia, Lombardi. Al grido di Sua Maestà il re, risposero con voce concorde: viva la Republica Italiana.
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