Era chiaro che al punto della dittatura non si voleva venire; e che i generali del re si mescolavano con noi, solo per far credere in città che si facesse a consiglio nostro. Perlochè dopo tre minuti, senza aver detto parola, nè fattomi scorgere, quetamente me ne andai. Se ne accorse De Boni, e mi seguì per farmi rimanere; poichè quei buoni republicani parevano già contenti di vedersi solamente trattati con un pò di cortesia. Ma io gli dissi che la prima misura di salvezza era di mandar tutti i generali del re al campo, ov'era abbastanza da fare; senza ciò avrebbero continuato a sventare ogni sforzo dei cittadini; ma mi pareva inutile il dirlo, finchè nessuno aveva il potere di farlo; e il potere non si sarebbe conferito, poichè li stessi membri del comitato non volevano intendere l'apertissima necessità d'averlo, e d'esigerlo, o anco di prenderlo da sè stessi, appellandosi al popolo.
Pare che il Fava avesse avuto sentore della malvagia intenzione colla quale il re veniva a Milano; e che per vanità del secreto di Stato, se ne lasciasse sfuggir di bocca qualche cenno; ma chi lo intese, n'ebbe serio spavento; e ne parlò a un capo della guardia nazionale, che andò tosto a farne parola al conte Arese, collega del Fava medesimo nel consesso supremo di polizia. Dall'Arese fu mandato con viglietto all'altro collega Litta Modignani, il quale fece chiamar tosto il Fava. Ma questi con facezia veneta facilmente tranquillò il collega e li altri astanti. Era strano assai che il consesso il quale "doveva scoprire le corrispondenze che potessero avere nell'interno li esterni nemici", fosse per fare la sua prima e unica scoperta nella persona del suo presidente e del suo re!
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