Surse l'alba del 5; la città era preparata ad ogni assalto; li uomini in armi; pronto il soccorso ai feriti; fumavano tuttavia li incendii intorno alle mura. Ma il cannone taceva. E una taciturna e tetra agitazione pervadeva i battaglioni del re
Verso le nove, furono chiamati in casa Greppi al Giardino i municipali; poscia, a richiesta loro, il comitato di difesa e i capi della guardia nazionale. Trovarono entrando il conte Resta, che colle lacrime alli occhi accennò loro confusamente di gravi calamità. Ma nell'anticamera, ov'erano Salasco, Pareto, Bava, Olivieri e altri siffatti, trovarono straordinarie cordialità, e sorrisi, e strette di mano. Poscia Olivieri si mise placidamente a dire, come il re, per difetto di denaro e viveri e munizioni, e per salvare la città, avesse capitolato; perlochè faceva loro sapere che l'esercito regio si ritirerebbe al di là del Ticino; e un'ora prima d'uscire di Milano, metterebbe il nemico in possesso d'una delle porte; si era già determinato che fosse Porta Romana. Quanto ai cittadini compromessi, il maresciallo non garantiva nulla, non mescolandosi egli in cose di polizia; ma per quanto era in lui, li farebbe trattare con equità; e concedeva anzi licenza che seguissero, per la via di Magenta, l'esercito del re, fino alle sei di quella sera.
Mentre tutti stavano immoti fra lo stupore e lo sdegno, il marchese Pareto soggiunse: "già ben veggono ch'è inutile combattere colla necessità: anche l'intervento francese non sarebbe certo; e in ogni modo non potrebbe quell'esercito arrivare, se non fra una trentina di giorni".
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