Li arringava il dottor Oldini, ch'era albertista e capo d'una società di costituzionali che si adunavano sopra il caffè Cova, e avrebbero voluto la fusione, ma solo a guerra vinta. Le carrozze già preparate alla fuga del re, furono capovolte per chiudergli il passo; i generali che si affacciarono alle finestre a dar parole, furono accolti dai loro partigiani a fucilate. Alcuni pretendono che il re medesimo toccasse al collo la scalfitura d'una palla. Alcuni soldati, ch'erano sparsi per la città con loro parenti, e in fratellanza col popolo armato, non credendo alla resa, colle lagrime alli occhi pregavano i cittadini a tranquillarsi e intender ragione. Qualche officiale, non meno leale, ma più esperto delle cose della sua patria, si strappò dispettosamente li spallini, dicendo di voler morire col popolo; e il popolo rispondeva: viva il Piemonte e infamia a Carlo Alberto! Era la voce stessa ch'io aveva fatto udire nella sala del governo provisorio il 24 di marzo. Allora poteva essere una voce di salvamento; oramai era vano strido di disperazione. Chi affida ai nemici nati dalla libertà la cura di salvarla, s'aspetti di vederla tradita.
Se il re giudicava impossibile la difesa, poteva rifiutare di parteciparvi; ma non doveva occupare la città, nè mai consegnarla di sua mano al nemico. Poteva dire onoratamente : "voi volete tentare un'impresa disperata; la città è vostra; fate voi. Non potete però costringermi a prendere sopra di me la sua ruina. Lasciate dunque ch'io vada co' miei soldati; e fate ciò che Dio v'ispira.
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