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      Pensano, ancora oggidì, che il Piemonte potrebbe fare anche senza l'Italia; ma non l'Italia senza il Piemonte. Io tengo per fermo che il Piemonte abbia mostrato abbastanza di voler fare da sè e per sè. Tengo per fermo che il Piemonte anela omai solo ad aver Piacenza, o anche Parma, facendo pagare in denaro ai popoli il risarcimento dei Borboni; insomma, come al suo solito, aspira solo a uscire dal naufragio d'Italia con una scheggia in mano. Tengo per fermo, che un'altra volta parimenti, non dichiarerà la guerra se non alla sesta giornata. Finchè non vinceremo, ci lascerà un'altra volta pericolare, come nei cinque giorni di Milano; ci lascerà perire, come in Vicenza, in Chiavenna, in Valle Intelvi, in Pontida. Ma se vinceremo, manderà tosto l'esercito, coi regii commissarii, e coi registri della fusione, a sequestrare la nostra vittoria, a confiscare la nostra libertà.
      Il nostro sincero vessillo è in Venezia; e di là minaccia a tergo e sulle due rive dell'Adriatico i nostri nemici. Caduta Venezia la guerra italica sarebbe estinta; e l'unanime nostra rivoluzione verrebbe a chiamarsi non altro più che una sedizione repressa. Lasciamo il Piemonte nella rete della sua politica; volgiamo l'animo a Venezia; non lasciamola languire; quivi è il palladio dell'indipendenza; in Roma è il santuario della libertà.
      I vanitosi marescialli non seppero valersi della cieca fortuna. A Porta Romana, non tesero una mano cavalleresca al popolo tradito, salutando la sua bandiera, e giurandogli pace e libertà; risposero colle fucilazioni alla generosità dei nostri giovani verso li officiali prigionieri; strapparono dalla nostra terra tutte le radici dell'antica autorità imperiale.


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Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra
di Carlo Cattaneo
1849 pagine 315

   





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