- Sotto il castello di Càrcano, nel Piano d'Erba, Federico rovesciò e prese lo stendardo sacro dei Milanesi; ma prima di sera era fugitivo in Como, le sue tende èrano prese; i suoi alleati, prigionieri. - Intanto un incendio distrusse i vìveri, accumulati in Milano per resìstere all'assedio; Federico con centomila combattenti girò vastamente tutta la campagna, troncando gli àrbori, ardendo le case, mutilando chiunque apportasse vìveri alla città, ch'era divorata dalla più aspra fame. Alla fine i cittadini domati uscìrono dalle mura; s'avviàrono al campo di Federico, che, ritràttosi a venti miglia di distanza, aveva lasciato fra l'esèrcito e la città il vuoto spazio della desolata campagna. Prima trecento cavalieri depòngono al suo piede le spade e le insegne; poi viene lo stuolo dei personaggi consolari; poi il carro del sacro stendardo; poi tutti i combattenti, emunti dal lungo digiuno, colla croce su le spalle. Al suono delle trombe municipali, il vinto stendardo cade, lo sventurato pòpolo si atterra; i capitani vincitori rèstano attòniti e commossi al pianto. Il solo Federico non si muta; comanda che i vinti colle loro mani abbàttano ampiamente le mura, perchè vuole entrarvi con tutto l'esèrcito in òrdine di battaglia. Avventa le soldatesche contro la vuota città; e salve solo le chiese di Dio, fa di tuttociò che appartiene agli uòmini un cùmulo di ruine. I cittadini si spàrgono pei campi in tugurj di paglia.
Dopo che per cinque anni èbbero sofferto i più gravi disagi, apparve un giorno fra i loro pòveri tugurj un frate del convento di Pontida, seguito da squadre d'armati delle vicine città. Veniva a ricondurli entro le mura e a rialzarle.
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