E perché queste cose non mi tolgano il luogo da dire cose di maggiore importanza, cosí brevemente le passerò.
XXVI. Con tutto che io esca alquanto della mia professione, volendo descrivere la vita mia, mi sforza qualcuna di queste cotal cose non già minutamente descriverle, ma sí bene soccintamente accennarle. Essendo una mattina del nostro San Giovanni a desinare insieme con molti della nazion nostra, di diverse professione, pittori, scultori, orefici; infra li altri notabili uomini ci era uno domandato il Rosso pittore, e Gianfrancesco discepolo di Raffaello da Urbino, e molti altri. E perché in quel luogo io gli avevo condotti liberamente, tutti ridevano e motteggiavano, secondo che promette lo essere insieme quantità di uomini, rallegrandosi di una tanto maravigliosa festa. Passando a caso un giovane isventato, bravaccio, soldato del signor Rienzo da Ceri, a questi romori, sbeffando disse molte parole inoneste della nazione fiorentina. Io, che era guida di quelli tanti virtuosi e uomini da bene, parendomi essere lo offeso, chetamente, sanza che nessuno mi vedessi, questo tale sopragiunsi, il quale era insieme con una sua puttana, che per farla ridere, ancora seguitava di fare quella scornacchiata. Giunto a lui, lo domandai se egli era quello ardito, che diceva male de' Fiorentini. Subito disse: - Io son quello -. Alle quale parole io alzai la mana dandogli in sul viso, e dissi: - E io son questo -. Subito messo mano all'arme l'uno e l'altro arditamente, ma non sí tosto cominciato tal briga, che molti entrorno di mezzo, piú presto pigliando la parte mia che altrimenti, essentito e veduto che io avevo ragione.
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