Vista la lettera, la mi misse tanta paura, che io andai a trovare quel mio caro amico, che si domandava Pier Landi; il quale vedutomi, subito mi domandò che cosa di nuovo io avevo, che io dimostravo essere tanto travagliato. Dissi al mio amico che, quel che io avevo che mi dava quel gran travaglio, in modo nessuno non gliel potevo dire; solo lo pregavo che pigliassi quelle tali chiave che io gli davo, e che rendessi le gioie e l'oro al terzo e al quarto, che lui in sun un mio libruccio troverebbe scritto; di poi pigliassi la roba della mia casa, e ne tenessi un poco di conto con quella sua solita amorevolezza, e che infra brevi giorni lui saprebbe dove io fussi. Questo savio giovane, forse a un dipresso imaginatosi la cosa, mi disse: - Fratel mio, va' via presto, di poi scrivi, e delle cose tue non ti dare un pensiero -. Cosí feci. Questo fu il piú fedele amico, il piú savio, il piú da bene, il piú discreto, il piú amorevole che mai io abbia conosciuto. Partitomi di Firenze, me ne andai a Roma, e di quivi scrissi.
XLIII. Subito che io giunsi in Roma, ritrovato parte delli mia amici, dalli quali io fui molto ben veduto e carezzato, e subito mi messi a lavorare opere tutte da guadagnare e non di nome da descrivere. Era un certo vecchione orefice, il quale si domandava Raffaello del Moro. Questo era uomo di molta riputazione ne l'arte, e nel resto era molto uomo da bene. Mi pregò che io fussi contento andare a lavorare nella bottega sua, perché aveva da fare alcune opere d'importanza, le quali erano di bonissimo guadagno: cosí andai volentieri.
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