- Io stetti infra dua di cacciarmi a correre giú per quelle scale; di poi mi risolsi, e gettatomi in ginocchioni, gridando forte, perché lui non cessava di gridare, dissi: - E se io sono per una infirmità divenuto cieco, sono io tenuto a lavorare? - A questo e' disse: - Tu hai pur veduto lume a venir qui, né credo che sia vero nessuna di queste cose che tu di'-. Al quale io dissi, sentendogli alquanto abbassar la voce: - Vostra Santità ne dimandi il suo medico, e troverrà il vero -. Disse: - Piú all'agio intenderemo se la sta come tu di'-. Allora, vedutomi prestare audienza, dissi: - Io non credo che di questo mio gran male ne sia causa altri che il cardinal Salviati, perché e' mandò per me subito che Vostra Santità fu partito, e giunto allui, pose alla mia opera nome una cipollata, e mi disse che me la farebbe finire in una galea; e fu tanto la potenzia di quelle inoneste parole, che per la estrema passione subito mi senti' infiammare il viso, e vennemi innegli occhi un calore tanto ismisurato, che io non trovavo la via a tornarmene a casa: di poi a pochi giorni mi cadde dua cataratti in su gli occhi; per la qual cosa io non vedevo punto di lume, e da poi la partita di Vostra Santità io non ho mai potuto lavorare nulla -. Rizzatomi di ginocchioni, mi andai con Dio; e mi fu ridetto che il Papa disse: - Se e' si dà gli ufizi, non si può dare la discrezione con essi. Io non dissi al Cardinale che mettessi tanta mazza: che se gli è il vero che abbia male innegli occhi, quale intenderò dal mio medico, sarebbe da 'vergli qualche compassione -. Era quivi alla presenza un gran gentiluomo molto amico del Papa e molto virtuosissimo.
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