Alle quali giunti, il Tribolo disse: - Leghiamo le spade per l'amor de Dio, e non me ne fate piú; ché sempre m'è parso avere le budella 'n un catino -. Al quale io dissi: - Compar mio Tribolo, a voi non accade legare la spada, perché voi non l'avete mai isciolta, - e questo io lo dissi accaso, per non gli avere mai veduto fare segno di uomo in quel viaggio. Alla quale cosa lui guardatosi la spada, disse: - Per Dio che voi dite il vero, che la sta legata in quel modo che io l'acconciai innanzi che io uscissi di casa mia -. A questo mio compare gli pareva che io gli avessi fatto una mala compagnia, per essermi risentito e difeso contra quelli che ci avevano voluto fare dispiacere; e a me pareva che lui l'avessi fatta molto piú cattiva a me, a non si mettere a 'iutarmi in cotai bisogni. Questo lo giudichi chi è da canto sanza passione.
LXXX. Scavalcato che io fui, subito andai a trovare il duca Lessandro e molto lo ringraziai del presente de' cinquanta scudi, dicendo a Sua Eccellenzia che io ero paratissimo a tutto quello che io fussi buono a servire Sua Eccellenzia. Il quale subito m'impose che io facessi le stampe delle sue monete: e la prima che io feci si fu una moneta di quaranta soldi, con la testa di Sua Eccellenzia da una banda e dall'altra un San Cosimo e un San Damiano. Queste furono monete d'argento, e piacquono tanto, che il Duca ardiva di dire che quelle erano le piú belle monete di Cristianità. Cosí diceva tutto Firenze, e ogniuno che le vedeva. Per la qual cosa chiesi a Sua Eccellenzia che mi fermassi una provvisione, e che mi facessi consegnare le stanze della zecca; il quale mi disse che io attendessi a servirlo, e che lui mi darebbe molto piú di quello che io gli domandavo; e intanto mi disse che aveva dato commessione al maestro della zecca, il quale era un certo Carlo Acciaiuoli, e allui andassi per tutti li dinari che io volevo: e cosí trovai esser vero: ma io levavo tanto assegnatamente li danari, che sempre restavo a' vere qualche cosa, sicondo il mio conto.
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