XCIII. Attesi a finire il mio libretto; e finito che io l'ebbi, lo portai dal Papa, il quale veramente non si potette tenere che egli non me lo lodassi grandemente. Al quale io dissi che mi mandassi a portarlo come lui mi aveva promesso. Il Papa mi rispose, che farebbe quanto gli venissi bene di fare e che io avevo fatto quel che s'apparteneva a me. Cosí dette commessione che io fossi ben pagato. Delle quale opere in poco piú di dua mesi io mi avanzai cinquecento scudi: il diamante mi fu pagato a ragion di cencinquanta scudi e non piú; tutto il restante mi fu dato per fattura di quel libretto, la qual fattura ne meritava piú di mille, per essere opera ricca di assai figure e fogliami e smalti e gioie. Io mi presi quel che io possetti avere, e feci disegno di andarmi con Dio di Roma. In questo il Papa mandò il detto libretto allo Imperadore per un suo nipote domandato il signore Sforza, il quale presentando il libro allo Imperadore, lo Imperatore l'ebbe gratissimo, e subito domandò di me. Il giovanetto signore Sforza, ammaestrato, disse che per essere io infermo non ero andato. Tutto mi fu ridetto.
Intanto messomi io in ordine per andare alla volta di Francia; e me ne volevo andare soletto; ma non possetti, perché un giovanetto che stava meco, il quale si domandava Ascanio; questo giovane era di età molto tenera ed era il piú mirabil servitore che fossi mai al mondo; e quando io lo presi, e' s'era partito da un suo maestro, che si domandava Francesco, che era spagnolo e orefice.
| |
Papa Papa Dio Roma Papa Imperadore Sforza Imperadore Imperatore Sforza Francia Ascanio Francesco
|