XXXIX. E con tutto che, sí come io ho detto, il Re dimostrassi di avergli fatte buone queste ditte ragione, innel segreto suo lui non la intendeva cosí; perché, sí come io ho detto di sopra, egli rivenne a Parigi, e l'altro giorno, senza che io l'andassi a incitate, da per sé venne accasa mia: dove, fattomigli incontro, lo menai per diverse stanze, dove erano diverse sorte d'opere, e cominciando alle cose piú basse, gli mostrai molta quantità d'opere di bronzo, le quali lui non aveva vedute tante di gran pezzo. Di poi lo menai a vedere il Giove d'argento, e gnene mostrai come finito, con tutti i sua bellissimi ornamenti: qual gli parve cosa molto piú mirabile che non saria parsa ad altro uomo, rispetto a una certa terribile occasione che allui era avvenuta certi pochi anni innanzi: che passando, di poi la presa di Tunizi, lo Imperadore per Parigi d'accordo con il suo cognato re Francesco, il detto Re, volendo fare un presente degno d'un cosí grande Imperadore, gli fece fare uno Ercole d'argento, della grandezza appunto che io avevo fatto il Giove; il quale Ercole il Re confessava essere la piú brutta opera che lui mai avessi vista; e cosí avendola accusata per tale a quelli valenti uomini di Parigi i quali si pretendevano essere li piú valenti uomini del mondo di tal professione, avendo dato ad intendere a il Re che quello era tutto quello che si poteva fare in argento e nondimanco volsono dumila ducati di quel lor porco lavoro; per questa cagione avendo veduto il Re quella mia opera, vidde in essa tanta pulitezza, quale lui non arebbe mai creduto.
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