Un giorno Sua Eccellenzia illustrissima mi fece dare parecchi libbre d'argento e mi disse: - Questo è dello argento delle mie cave, fammi un bel vaso -. E perché io non volevo lasciare in dietro il mio Perseo e ancora avevo gran volontà di servirlo, io lo detti da fare, con i miei disegni e modelletti di cera, a un certo ribaldo che si chiama Piero di Martino, orafo: il quale lo cominciò male e anche non vi lavorava, di modo che io vi persi piú tempo che se io lo avessi fatto tutto di mia mano. Cosí avendomi straziato parecchi mesi, e veduto che il detto Piero non vi lavorava, né manco vi faceva lavorare, io me lo feci rendere, e durai una gran fatica a riavere, con el corpo del vaso mal cominciato, come io dissi, il resto dell'argento che io gli avevo dato. Il Duca che intese qualcosa di questi romori, mandò per il vaso e per i modelli e mai piú mi disse né perché né per come; basta che con certi mia disegni e' ne fece fare a diverse persone e a Venezia e in altri luoghi, e fu malissimo servito. La Duchessa mi diceva spesso che io lavorassi per lei di oreficerie: alla quale io piú volte dissi, che 'l mondo benissimo sapeva, e tutta la Italia, che io ero buono orefice; ma che la Italia non aveva mai veduto opere di mia mano di scultura: - e per l'arte certi scultori arrabbiati, ridendosi di me, mi chiamano lo scultor nuovo; ai quali io spero di mostrare d'esser scultor vecchio, se Idio mi darà tanta grazia che io possa mostrar finito 'l mio Perseo in quella onorata piazza di Sua Eccellenzia illustrissima -. E ritiratomi a casa, attendevo a lavorare il giorno e la notte, e non mi lasciavo vedere in Palazzo.
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