- Io conclusi che ero loro ubbrigato ed entrai in altri piacevoli ragionamenti. Appostai un giorno approposito, e trovandolo piacevole ammio modo, io pregai Sua Eccellenzia illustrissima che mi dessi buona licenzia, acciò che io non gittassi via qualche anno acché io ero ancor buono affar qualche cosa, e che di quello che io restavo d'avere ancora del mio Perseo, Sua Eccellenzia illustrissima me lo dessi quando aqquella piaceva. E con questo ragionamento io mi distesi con molte lunghe cerimonie arringraziare Sua Eccellenzia illustrissima, la quale non mi rispose nulla al mondo, anzi mi parve che e' dimostrassi di averlo aùto per male. L'altro giorno seguente messer Bartolomo Consino, segretario del Duca, de' primi, mi trovò, e mezzo in braveria, mi disse: - Dice il Duca che se tu vòi licenzia, egli te la darà; ma se tu vuoi lavorare, che ti metterà in opera: che tanto potessi voi fare, quanto Sua Eccellenzia vi darà da fare! - Io gli risposi che non desideravo altro che aver da lavorare, e maggiormente da Sua Eccellenzia illustrissima piú che da tutto il resto degli uomini del mondo, e fussino papa o imperatori o re; piú volentieri io servirei Sua Eccellenzia illustrissima per un soldo che ogni altri per un ducato. Allora ei mi disse: - Se tu se' di cotesto pensiero, voi siate d'accordo senza dire altro; sí che ritòrnatene a Firenze e sta di buona voglia, perché il Duca ti vuol bene -. Cosí io mi ritornai a Firenze.
CIX. Subito che io fui a Firenze, e' mi venne a trovare un certo uomo chiamato Raffaellone Scheggia, tessitore di drappi d'oro, il quale mi disse cosí: - Benvenuto mio, io vi voglio mettere d'accordo con Piermaria Sbietta -: al quale io dissi che e' non ci poteva mettere d'accordo altri che li signori Consiglieri, e che in questa mana di Consiglieri lo Sbietta non v'arà un Federigo de' Ricci, che per un presente di dua cavretti grassi, sanza curarsi di Dio né de l'onor suo, voglia tenere una cosí scellerata pugna e fare un tanto brutto torto alla santa ragione.
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