Guardi bene che non v'ha gigante, né cavaliere! né gatto, né arme, né scudi divisi o interi, né palle azzurre, né indemoniate; ma che fa ella mai? Ah poveretto di me!" Non per questo don Chisciotte mutava proposito, anzi andava gridando: - Olà, cavalieri tutti che militate sotto agli stendardi del prode Pentapolino dal braccio ignudo, seguitemi quanti siete, e vedrete com'io presto saprò vendicarlo del suo nemico Alifanfarone di Taprobana." Pronunziate appena queste parole, si cacciò in mezzo allo squadrone delle pecore, e cominciò ad investirle con tanto furore e con tanta animosità, come se veramente fosse andato ad affrontare un capitale nemico. I pastori ed i guardiani della mandra gridavano e replicavano che non facesse: ma poiché videro inutile il loro schiamazzo dieder di piglio ai sassi, e cominciarono a salutarlo con pietre grosse come un pugno. Don Chisciotte, non curandosi punto delle sassate, scorreva qua e colà dicendo: - Ove sei, superbo Alifanfarone, vieni a misurarti meco, che sono un solo cavaliere e bramo da solo provar le tue forze e toglierti la vita in pena delle offese che mediti contro al valoroso Pentapolino Garamanta. Capitò in questo certa mandorla liscia liscia di fiume che gli seppellì due costole nel corpo. Si tenne egli per morto, o almeno per ferito pericolosamente, ma sovvenendosi del suo liquore, trasse di subito il suo orciuolo e lo pose alla bocca mandando giù il balsamo nello stomaco. Non avea appena ingoiato quanto gli parea necessario, che eccoti un'altra grossa mandorla la quale gli colpì la mano e il vasetto sì dirittamente, che questo andò in mille pezzi, e gli uscirono di bocca tre o quattro denti mascellari, e poi gli furono malamente peste due dita della mano.
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