- Per amore di Dio, mio signore, non faccia ch'io la vegga ignudo, perché non potrei per gran compassione trattenermi dal piangere; e dopo il pianto che ho sparso nella scorsa notte pel mio asino, ho ancora sì gran male alla testa, che non mi trovo ora in grado di sgorgare nuove lagrime. Se vuole vossignoria ch'io vegga alcune delle sue pazzie le faccia bello e vestito, sien brevi, e come più le torna a comodo; ma già non occorrono con me queste cerimonie; e tanto più che questo farebbe ritardare il mio ritorno a lei, che dovrà seguire col recarle nuove quali le brama e le merita. Io la prevengo che se mai la signora Dulcinea non mi rispondesse a dovere, giuro per tutti i miei santi avvocati che le caverò dallo stomaco una buona risposta a calci e a pugna; perché come si può tollerare che un cavaliere errante tanto celebre come la signoria vostra impazzisca senza verun motivo, e non per altro che per una?... Non me lo lasci dire la signora... ch'io son tale da non tenerla fra i denti, tuttoché ciò sia molto prudente. Ella non mi conosce bene: che se sapesse chi io mi sia, tremerebbe a sentirmi nominare.
- Affé, Sancio, disse don Chisciotte, tu non sei troppo più savio di me. - Non sono tanto pazzo, bensì più iracondo: ma lasciamo a parte queste cose, e mi dica di grazia: di che si ciberà ella fino al mio ritorno? pensa forse di andare alla strada come Cardenio? - Non ti pigliare siffatte brighe, rispose don Chisciotte, perché quand'anche fossi fornito di vettovaglie non mangerei se non erbe e frutta di questi prati e di questi alberi: giacché il merito della mia risoluzione non consiste nel pascere il ventre, ma nel patire.
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