Dopo tutto questo andava fra sé stesso dicendo:
«Eppur delle imprese degli scudieri non si è mai usato di fare menzione in iscritto, e quand'anche vi fosse una tale istoria, dovendosi riferirla ad errante cavaliere, dovrebbe essere per necessità eloquentissima, alta, insigne, magnifica, veritiera.» Lo consolavano un poco queste riflessioni, ma si trovava poi sconfortato pensando che n'era Moro l'autore, poiché aveva il nome di Cide, né dai Mori attender poteasi verità alcuna, essendo tutti imbrogliatori, falsarii e lunatici. Temeva che non si fosse parlato degli amori suoi colla più rigorosa decenza, e che ne avesse quindi a ridondare pregiudizio ed oltraggio alla onestà della sua signora Dulcinea del Toboso; almeno bramava che fosse stata posta in chiaro lume la sua fedeltà e il decoro che aveale gelosamente serbato, sprezzando per tale suo idolo, regine, imperatrici e donzelle di ogni condizione, e infrenando gl'impulsi suoi naturali.
Stando così in queste ed in altre molte immaginazioni, giunsero a lui Sancio e Carrasco, il quale molto cortesemente fu accolto da don Chisciotte. Il baccelliere, quantunque si chiamasse Sansone, non era molto alto di statura, ma volpe fina, di colore macilento e di scaltrito giudizio. Contava l'età di ventiquattr'anni, aveva faccia tonda, naso schiacciato e bocca grande: indizi tutti di un uomo malizioso e amico delle galanterie e degli scherzi: ed egli ne diede subito una chiara prova allorché, vedendo don Chisciotte, se gl'inginocchiò dinanzi e gli disse:
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