Tra Sancio Pancia e sua moglie Teresa Cascascio seguiva il riferito colloquio, e intanto non se ne stavano già oziose la nipote e la serva di don Chisciotte, che per mille indizi venivano accorgendosi che lo zio e padrone divisava già di far la terza uscita in campagna, e di tornare all'esercizio della sua (come esse dicevano) malerrante cavalleria. Procuravano di distorlo, con ogni miglior modo da quell'infausto pensiero; ma tutto era un predicare al deserto, e il batter su di un ferro freddo. Contuttociò fra i molti ragionamenti con lui tenuti, gli disse la serva:
- In verità, padron mio, che se vossignoria non tiene piè fermo restando a casa sua, e se si conduce per monti e per valli come anima in pena, cercando queste avventure, che a me paiono invece disgrazie, io farò lagnanze tanto clamorose che giungeranno a Dio e al re, il quale vi porrà rimedio.»
Don Chisciotte rispose:
- Serva, non so che sarà per rispondere Iddio né tampoco la maestà del re alle tue querimonie; so unicamente che se io fossi re mi disobbligherei dal rispondere a quella infinita quantità di memoriali impertinenti che tuttogiorno gli vengono presentati: ché uno dei più grandi travagli che hanno i re, fra gl'infiniti, quello si è di essere obbligati ad ascoltare tutti, e rispondere a tutti; e per conto mio bramerei che non gli venisse recata molestia alcuna.»
Soggiunse la serva: - Signore, dica di grazia: in corte di sua maestà non vi sono cavalieri?
- Ve n'ha, e molti, rispose don Chisciotte, ed è ciò ben ragionevole, perché servano di ornamento alla grandezza dei principi e di pomposa mostra della maestà regia.
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