- Oh, qua c'è da discorrere molto, disse Sancio: dormiamo intanto tutti e due, e poi Dio sa quello che sarà: non è mica piccolo negozio quello di frustarsi di per sé a sangue freddo: e tanto più se le frustate cadono addosso un corpo mal sostenuto e peggio cibato; che la mia signora Dulcinea abbia pazienza, e quando manco se l'aspetterà diventerò un crivello per le frustate: insino alla morte ogni cosa è vita, e voglio dire che io mi tengo in vita col desiderio di mantenere quanto ho promesso.» Allora gradì don Chisciotte la dichiarazione, mangiò un poco e Sancio molto, ed entrambi si misero a dormire, lasciando i due eterni compagni ed amici, Ronzinante e il leardo, in libera loro volontà di pascere l'abbondante erba ch'era nel prato.
Si svegliarono ch'era alquanto tardi, e tornarono a cavallo continuando il loro viaggio, affrettandosi per arrivare all'osteria che poteva essere una sola lega lontana. Io la chiamo osteria, perché don Chisciotte così la denominò contro l'usanza sua ch'era quella di chiamare castelli tutte le osterie. Giunsero finalmente e dimandarono all'oste se vi fosse da alloggiare. Rispose che sì, e con tanta agiatezza e comodità quanto poteasi trovare in Saragozza. Smontarono da cavallo, e Sancio ripose la sua credenza in una camera di cui l'oste gli consegnò la chiave. Condusse le bestie nella stalla, e diede loro la profenda, ringraziando il Cielo che alla fine l'osteria non fosse parsa un castello al suo padrone. Recossi poi a ricevere i suoi comandi, e lo trovò che stava seduto su di un muricciuolo.
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