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      Ebbene, per se stessa, era un'opinione arrischiata. Padron Gregorio, nei suoi momenti di penose espansioni, rivelava pure i crucci che gli aveva dato e che continuava a dargli la figlia. La definiva della stessa razza dei fratelli. Anch'ella, in un'età in cui le ragazze hanno almeno la pudicizia del contegno, aveva raccattato le maldicenze della strada, per farne onta alla madre, per vessare il padre, per dare un pretesto all'odio suo contro Mario. Poi, non si riusciva a capirla: era tirchia, gretta, interessata fino all'esagerazione, e aveva certe stravaganze cocciute di cervello guasto. Leggeva dei romanzi; faceva la sentimentale; all'occasione faceva pure la civetta.
      Sul principio del Settantadue, Ferramonti si illuse per un momento ch'ella, nel proprio interesse, gli avrebbe dato almeno una soddisfazione. Le si era offerto un partito d'oro: un droghiere al Tritone, pieno d'intelligenza e di attività, ch'era sulla via di crearsi un grosso patrimonio. Lei stessa, del resto, aveva allettato il droghiere, incontrandolo ai concerti di Piazza Colonna, e, qualche volta, a teatro, con mille smorfie, con mille incoraggiamenti. Ebbene, quantunque egli fosse pure un bell'uomo, di appena quarant'anni, Teta aspettò che la chiedesse formalmente in moglie, per rispondergli un no tondo, ostinato. Non ci fu verso di rimuoverla.
      Preparava al padre una bella sorpresa: due mesi dopo si fece rapire da un impiegato a duecento lire al mese. Ferramonti ebbe a morirne d'un accidente. Consentí al matrimonio per riparare allo scandalo; ma giurò che non avrebbe fatto vedere alla figlia la croce d'un centesimo.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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