Quando lo sposo si presentò per parlare di dote, nacque una scena tragicomica; l'antico fornaio, furibondo, lo trattò da straccione e gli mostrò la porta, minacciandolo di pigliarlo a calci nel sedere se si tratteneva un minuto di piú.
Paolo Furlin, lo sposo, si ritirò per tentare delle vie piú lunghe forse; ma meno pericolose di certo. Reclamò la dote con un'intimazione giudiziaria, che colse Ferramonti di sorpresa. Padron Gregorio ripugnò da una lite di tal genere, quantunque non ne fosse dubbio per lui l'esito. Cedette le armi; assegnò a Teta i tremila scudi che aveva assegnato a Pippo, e s'inabissò piú che mai nell'amarezza dei suoi rancori. Visse un anno cosí, come un superstite alla rovina della propria famiglia.
II.
Pippo non aveva affatto preveduto di trovare nella bottega di ferrarecce anche la moglie. Nondimeno il suo matrimonio fu proprio la conseguenza necessaria dell'acquisto.
In mezzo ai chiodi, ai badili ed alle toppe, ascoltando padron Giovanni Carelli, che gli faceva la presentazione della bottega, prima di firmare il contratto, il giovine Ferramonti capí la gravità del suo colpo di testa. Mandando al diavolo l'Arte Bianca per fare un dispetto al padre, s'era figurato che il traffico delle ferrarecce fosse preferibile a tutti: un pezzo di ferro è un pezzo di ferro, che ha il suo prezzo determinato, e che i compratori acquistano quando ne hanno bisogno, senza che occorra allettarli con malizie speciali. Gli pareva sufficiente a cavarsene con onore, l'accorgimento comune ai commercianti in genere, in cui egli si era agguerrito, dalla nascita, attendendo al forno di via del Pellegrino.
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