Irene lo fissava muta, col viso pallido, con un fremito delle narici, con un'ardente intensità dello sguardo. Lo aveva appena ringraziato; non faceva nulla perché egli badasse a lei. Forse ne aveva paura.
Al momento di salutarsi lo trattenne un istante, parlandogli con voce che aveva singolari e nuove inflessioni.
- Con tutti questi vostri affari, vedrai spesso Rinaldo Barbati, imagino.
Egli la guardò un istante negli occhi.
- Ma sí... Appunto: debbo andare da lui anche stasera.
- Allora, saluta Flaviana. Non la vedo piú da cinque giorni.
VI.
- Eccomi qua, cognatina; ti porto il tuo danaro, - disse Mario, entrando nella stanza da lavoro d'Irene, e stringendo la mano alla giovine donna.
Era la mattina del 23 maggio. I due cognati si trovavano soli per la prima volta. Irene accennò a Mario una sedia, vicino al tavolinetto rotondo dinnanzi al quale cuciva. Gli sorrise.
- Vuoi esser gentile fino all'ultimo. Perché ti sei preso l'incomodo?...
- No, no! Gli affari, mia cara!... Facciamo i nostri conti da gente positiva.
- Mah!... se lo credi necessario, facciamoli, - diss'ella ridendo dello strano travestimento che Mario dava al suo dono.
Egli cavò di tasca una busta; riscontrò il danaro contenutovi: milleottocento quarantasette lire e venticinque centesimi. Appunto. Era la parte di sua cognata.
- Tanto! - esclamò lei, sorpresa: - come va?
- Il guadagno è stato maggiore del previsto. Abbiamo buon fiuto, eh, cognatina?
- Me lo provi, - assentí lei, con un'ultima frase scherzosa. Poi la sua espressione mutò. La riconoscenza splendeva nei suoi occhi, in tutto il suo viso.
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