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      Dovevasi dargli una prova di sincerità e di disinteresse. Si voleva evitare ch'egli abbandonasse la propria sostanza a gente indegna e cupida, che, per arrivarci piú presto, avrebbe fors'anche potuto attentare alla sicurezza di lui. Ma sarebbe stato odioso mirare a questa sostanza per conto proprio. Irene dichiarò che se il suocero le avesse per esempio manifestato l'intenzione di consacrare una parte cospicua dei propri capitali in beneficenze pubbliche, ella lo avrebbe incoraggiato ad allargare la mano.
      Ebbene, tali enormità non furono riprovate. Le cupidigie urtate ripiegavano sotto lo sguardo angelico d'Irene. D'altra parte si rifletteva che era assurdo e grottesco attribuire al vecchio Ferramonti idee da filantropo. E rimase soltanto la fiducia nell'abilità della giovine donna. La famiglia si traeva da parte. Avrebbero aspettato quanto occorreva; fatto, ciascuno, quello che Irene avrebbe consigliato di fare. Parevano guadagnati dal suo stesso disinteresse.
     
     
      VIII.
     
      Il dí appresso, Mario chiese alla cognata delle spiegazioni. Non era contento di lei. Da parte sua, egli aveva agito lealmente, mantenendo fino allo scrupolo gl'impegni presi. Perché dunque ella gli aveva taciuto che da qualche tempo mirava a papà? Voleva, per caso, agir sola?
      - Sei tanto ingrato, che perdi assolutamente la testa! - rispose lei con un accento intraducibile.
      Ormai, fra loro, non fingevano piú. S'erano confidati reciprocamente i loro disegni; i bisogni implacabili delle loro ambizioni e delle loro cupidigie.


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L'eredità Ferramonti
di Gaetano Carlo Chelli
pagine 243

   





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