Irene aveva passato con Mario ore lunghe di abbandoni e di confessioni, cedendo all'ebbrezza di sognare ad occhi aperti, e di tradurre il sogno in un linguaggio ardente. Ella era infelice. Non rammentava un giorno della propria esistenza, che segnasse una tregua alla rivolta segreta contro il proprio destino, onde aveva il cuore avvelenato. Sentiva nei suoi nervi, nel suo sangue e nel suo cervello qualche cosa, che non sapeva definire: una febbre di tutta se stessa che l'avvertiva d'esser nata per la ricchezza e pel dominio. Invece era nata povera, tra bottegai, fra gente che l'avrebbe creduta pazza da legare se avesse potuto conoscerla per quello che era realmente. Forse ciò appunto la irritava e la incitava di piú. Voleva lottare e vincere contro le derisioni della propria sorte. Lottare abilmente e cautamente, senza mostrare all'esterno di perdere il suo sangue freddo; senza farsi conoscere; valendosi delle armi che avrebbe avuto a portata di mano.
Non aveva disegni prestabiliti. Stava in agguato delle occasioni, pronta ad acciuffarle, ed a condursi a seconda di esse. Escludeva un mezzo soltanto: il mercimonio della propria bellezza, e la compromissione della propria onestà. Forse non comprendeva le logiche onnipotenti della passione. Disprezzava in ogni modo le debolezze della carne, con certi orrori di borghese intollerante, che restringe a questa sola forma di corruttela l'idea della colpa. E quando osava esprimere ancora tali massime, associandovi il pensiero delle proprie condizioni, sentivasi anche da questa parte ben disgraziata!
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Mario
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