Avrebbe voluto morire, tanto la vergogna schiacciava il suo orgoglio, per non aver saputo in realtà sottrarsi alle viltà del suo sesso, e per esser caduta, lei pure.
Insomma, non sapea darsi pace di aver ceduto al cognato, come una creatura senza fierezza, senza sentimento di dovere, ubbriaca di vizio. Era scesa con lui nella colpa, con acredini di voluttà che la facevano impazzire, crescendo in proporzione ai rimorsi che le straziavano il cuore. Mario poteva ben ridere quando gli spiegava queste cose: non cessavano, per ciò, dall'esser tali. Egli avrebbe veduto: il lor peccato sarebbe stato la causa della loro perdita.
Ma facevano di tutto, perché la disgrazia avvenisse il piú tardi possibile. La loro dissimulazione e le loro precauzioni erano un miracolo inaudito di abilità. Del resto, i loro nervi, eccitati nel pensiero costante di altri interessi materiali, e nel vagheggiamento di lontani orizzonti, parevano talvolta logori alle energie dell'amore. Mario voleva trovar comiche le esaltazioni della cognata, i suoi rimorsi, le sue sortite romantiche. La verità era che, in cinque mesi, il loro amore era andato appena sei o sette volte piú in là dei trastulli innocui e delle chiacchiere senza sugo. Sarebbe stato fresco, Mario, se Irene avesse dovuto bastargli!
Con tutto ciò, quella donna lo possedeva, destandogli sensazioni mai provate presso nessun'altra. Era specialmente la coscienza netta di un giogo diventato infrangibile. In effetti, Mario non sapea figurarsi nell'avvenire un giorno in cui la loro relazione sarebbe cessata.
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