Egli a sua volta usciva, rientrava, la lasciava, la ritrovava, come se fosse di casa, assolutamente. Una stanza dopo l'altra, ella penetrava in tutti i cantucci; cominciava a mettere le mani sugli oggetti per pulirli, o per cambiarli di posto. Arrischiava delle osservazioni, sempre piú precise, alla serva di casa, che si abituava a trovarsela ogni momento fra i piedi. Era una lenta presa di possesso, di cui tutte le mosse, calcolate e prudenti, diventavano una concatenazione di conseguenze logiche ed inevitabili.
Una domenica, suocero e nuora pranzarono insieme. Padron Gregorio, abituato da lungo tempo a mangiar solo come un cane, non rammentava una simile festa intima. Una volta assaporato tale piacere, egli sentiva di non potervi piú rinunciare. Se Irene gli voleva bene, doveva pensarci sul serio. D'altra parte, che era quel continuo sgambettare tutta la giornata da Torre Argentina al Pellegrino, e dal Pellegrino a Torre Argentina? Non c'era senso comune.
Egli aveva ragione: Irene andava da lui la mattina, fra le nove e le dieci; restava fino al tocco, e tornava verso le tre, per tutto il resto della giornata. Allora parve persuadersi lei pure; non trovò in ogni modo obbiezioni valide da contrapporre; ed anche quelle momentanee assenze cessarono definitivamente, a cominciare dalla domenica successiva. Irene fu la regina della casa; prese a governarla a suo talento, istigata, pressata, spinta dal suocero. Cambiò, rinnovò, trasformò quel semenzaio di tarli, quello stringicore di vecchiume e di abbandono.
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