Era l'eterna passione dell'amore mantenuta al suo grado massimo, attraverso una vicenda continua, una ridda di malinconie, di giocondità, di violenze, di slanci e di abbandoni: una cosa che non si traduce nell'umano linguaggio.
Mario divanzava senza paragone Irene. Le pazze idee venivano sempre da lui: la voglia di veder l'amante in acconciatura di visita, inguantata, col cappellino, quando non avevano da fare altro che starsene insieme; di condurla a cena quando avevano lo stomaco pieno; di correre a notte alta, col freddo e colla pioggia, le strade della città, nel fondo protettore e discreto di un legno chiuso. Spesso, come cedendo ad un'attrattiva di romanticismo ignoto ad ambedue, portavano le loro febbri nelle solitudini del Colosseo, ai bagliori di una notte illuminata dalla luna, o nelle alture del Gianicolo, dinnanzi alla gran città, radiosa e fremente di confusi strepiti e di arcani sospiri.
Irene cedeva all'amante con una docilità assoluta, trovando sempre il modo d'essere quello che i capricci ed i pervertimenti della passione di lui desideravano che fosse. Ella sapeva prendere tutte le fisonomie della donna che ama e che si abbandona al piacere. Mario non aveva mai visto e né pure imaginato mai nulla di simile.
Egli manteneva lealmente gl'impegni presi al principio della sua relazione: era rimasto l'agente d'affari particolare d'Irene, conducendo innanzi una serie di speculazioni ardite per conto esclusivo di lei. Agiva in piena libertà; ma sui primi di ciascun mese, quando portava alla giovine donna i profitti realizzati colle liquidazioni, i loro ardori svanivano nel linguaggio calmo e preciso degli affari, nella preoccupazione e nella ingordigia del danaro.
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